Articoli su Giovanni Papini

2003


Alberto Castaldini

Giovanni Papini e il mistero d'Israele

Pubblicato in: Cartevive, anno XIV
fasc. 1 pp. 54-66 [Parte prima]
51-52-53(54-55-56-57-58-59-60
61-62-63-64-65-66)67-68-69-70
fasc. 2 pp. 82-90 [Parte seconda]
81-(82-83-84-85-86-87-88-89-90)
Data: marzo 2003 (fasc. 1) - luglio 2003 (fasc. 2)



  54

Parte I

   Giovanni Papini non mancò di porsi di fronte a uno dei più profondi misteri della storia: la vicenda dei figli carnali di Abramo e la loro millenaria presenza nel mondo.
   Cattolico della sua epoca, e credente zelante dopo la conversione maturata nel 1920, Papini sperimentò nei confronti degli ebrei un duplice approccio: quello teologico, influenzato senza dubbio da una certa tradizione antigiudaica e quello storico-letterario, legato ai temi dell'immaginario narrativo: dal mercante di Venezia di Shakespeare all'ebreo errante di Sue. La sua produzione narrativa, precedente alle Lettere di papa Celestino VI (1946), appare così a tratti ipotecata da un certo pregiudizio.

1. La Storia di Cristo (1921), che con Un uomo finito è il libro più noto di Papini, propone sin dall'inizio il tema del patto, dell'alleanza di Abramo con il Padre, strettamente connesso a quello della condizione misteriosa di tutta la sua discendenza. «L'Ebreo - scrive Papini - fu tra i popoli, il più felice e il più infelice. La sua storia è un Mistero che comincia coll'Idillio nel Giardino delle Delizie e finisce colla tragedia sul rialzo del Teschio» 1. Papini traccia a rapide pennellate, e con aderenza alla narrazione biblica, la storia ebraica: dall'idillio dell'Eden alla Passione di Gesù, «padre dei nuovi santi, colui che era aspettato da tutti i profeti» 2. È un costante rapporto con l'Onnipotente, costellato di disobbedienze e di castighi, da cui è sempre rinato il vincolo antico voluto da Dio. Papini scorge nell'esistenza di Israele il continuo manifestarsi del paradosso - che egli interpreta come segno del cielo - e afferma perentorio che questo popolo «assurdo e problematico, sovrumano e miserabile», macchiatosi secondo l'odiosa vulgata di gravi colpe, «pure vide nascere dalle sue donne, nelle sue case, i più perfetti santi dell' oriente: giusti, ammonitori, solitari, profeti» 3. Poi, da ultimo, nacque Gesù, annunciato dai profeti.


  55

   La cultura religiosa di Papini risentiva di quell'antigiudaismo che verrà deplorato dal Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate (1965). Per questo, sul tema del deicidio e della successiva condanna divina, Papini scrisse la pagine più dure del libro.
   Egli ripropone con tono prepotentemente polemico la figura dell'Ebreo errante, pur essendo consapevole che tale leggenda non è suffragata da nessuna fonte del primo cristianesimo, anche se in altre pagine papiniane (è il caso del Giudizio universale), l'errabonda condizione diviene soprattutto testimonianza nel mondo dell'unico e vero Dio, e perciò prova di condanna, di grandezza e di gloria al contempo 4. Egli si scaglia contro questo personaggio tragico, reo secondo la leggenda di aver percosso il Nazareno e per questo condannato a vagare per il mondo in eterno, scorgendo nella sua dolorosa longevità la secolare sopravvivenza della sua stirpe 5.
   Quelle di Papini oggi appaiono parole gravi, ma non vanno dimenticati i presupposti culturali e teologici su cui poggiavano le conoscenze teologiche dello scrittore. L'esegeta Erik Peterson, negli anni Trenta, spiegava il sopravvivere di Israele nel mondo ricorrendo alla parabola del fico sterile (Luca, 13, 6-9), che doveva essere abbattuto per volere del padrone. Il vignaiuolo però lo impedì ritenendo che nell'avvenire avrebbe potuto ridare frutto. Perciò «il sopravvivere della Sinagoga è segno della potenza di Dio, il quale aspetta sempre ancora un anno che alla fine del mondo l'Israele carnale dia di nuovo dei frutti» 6. Come ignorare la passata convinzione teologica secondo la quale per gli ebrei l'esilio, la sottomissione, l'automaledizione («Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli», secondo l'oscura tradizione) sarebbero cessati purificando il sangue della Vittima con l'acqua del battesimo? 7.
   Nel capitolo intitolato Il buio l'abilità narrativa di Papini raggiunge uno dei suoi vertici con la descrizione della folla che assistette alla Crocifissione. «Vedete come protendono i musi annusanti, i nasi gobbi e uncinati, gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi. Osservateli quanto son orridi in quelle pose spontanee d'implacata cainità» 8. La prosa papiniana sembra indugiare su quei volti con la stessa ottica deformante che ritroviamo nelle Passioni tardo-medievali della pittura d'oltralpe. Essa è perciò prima di tutto libera, seppur assai opinabile, espressione di un artista, manifestazione


  56

della vena narrativa dello scrittore. Come ha scritto Mario Apollonio la sua consuetudine di compaginare in maschere i moti e le obbedienze astratte degli uomini, i tratti che li irrigidiscono in una naturalità inferiore, senza quella individuazione necessaria alla pienezza della dignità umana, si incontra con lo stile della rappresentazione popolana che chiude in maschere o bestiali o demoniache il volto dei tristi e denuda solo la faccia degli eletti 9.
   Ciò che però stupisce in questo zelante e acceso neofita, feroce apologeta, vittima di poiché espressione della Chiesa del suo tempo, è il fatto che scorga in quella che chiama "progenie di deicidi", "la più sacra di tutte le genti" 10. La percezione del grande mistero dunque non abbandonò mai Papini, nemmeno nelle pagine più discutibili, tanto che nelle sue affennazioni riecheggia quanto affermato nella Lettera ai Romani di san Paolo, e cioè che gli ebrei sono sempre, in certo modo, un popolo consacrato a Dio, un popolo dovuto a Dio.
   Il tono duro, a tratti sprezzante - che richiama certe pagine di Léon Bloy, soprattutto di Le salut par les Juifs (1892) - usato spesso da Papini, sembra quasi esprimere l'impossibilità di dominare quel mistero con la ragione. Solo l'emotività può almeno rappresentare la portata di quel sacro enigma e così la rabbia manifesta lo sconcerto, la delusione dell'intellettuale e del credente. In quelle parole non vi è odio ma piuttosto scandalo 11.
   Nel 1923 Papini con l'amico Domenico Giuliotti - che una parte determinante aveva avuto nella via lucis dell'antico Gian Falco - diede alle stampe per i torchi di Attillio Vallecchi il Dizionario dell'Omo salvatico. Ogni lemma del primo e unico volume vallecchiano - comprendente le voci dalla A alla B - gronda di spirito polemico. Esso sembra scaturire da quel gusto per l'eloquenza virulenta, quel piglio accesissimo che molto somiglia alla foga oratoria che oppone gli apologeti di diverse fedi nelle dispute religiose. Basti pensare alle orazioni di san Giovanni Crisostomo e a certi passi delle opere di san Girolamo. Nell'anticonformismo dominante, costantemente ricalcato, di quelle pagine violentemente controcorrente, talvolta emerge il senso morale che già animò le Polemiche religiose pubblicate da Papini nel 1917. In alcune delle voci più astiose si scorge così uno spiraglio di carità, che pennette di conoscere le ragioni di quelli che secondo la definizione gramsciana


  57

andavano annoverati fra i "nipotini del padre Bresciani". In un articolo a difesa dell'opera, apparso nel marzo 1923 sulla rivista "Vita e Pensiero" lo stesso Papini ammise così che il Dizionario poteva essere si accusato di "ferocia", ma non di "veleno", professandosi spirito "medievale" in quanto avverso al cattolicesimo delle concessioni e delle tiepidezze.
   Agli ebrei, Papini e Giuliotti riservano un'attenzione particolare, consapevoli del loro insostituibile ruolo nella storia del mondo. Aderendo a una diffusa interpretazione storiografica, alla voce "bolscevismo" rincarano la vis polemica evocando i complotti e le cospirazioni del giudaismo internazionale (i "Protocolli dei Savi Anziani di Sion" erano già noti in Italia) che avrebbero dato luogo alla Rivoluzione d'Ottobre. I toni volutamente corrosivi tornano nel lemma «Ahasvero», uno dei molti nomi con cui l'immnaginario popolare indica l'ebreo errante:

   Per tutti quelli cui premon le sorti di questo simpatico globe trotter possiamo dare una buona notizia. Ahasvero s'è fermato ed ha preso domicilio, anzi due domicili: una casa a Londra e una a New York e tutti i suoi viaggi si riducono ormai a traversare di tanto in tanto l'Oceano in un transatlantico di lusso 12.

   Davvero ingenerose, degne della ruvida sensibilità di un "omo salvatico", le parole con cui i due scrittori descrivono anche la figura biblica di Aronne, fratello di Mosè, doppiamente biasimato - secondo loro - per aver contentato gli ebrei erranti modellando il vitello d'oro. Ebbene, Papini e Giuliotti giustificano il gesto con astioso sarcasmo: per fabbricare il simulacro Aronne «si fece dare tutti i gioielli delle donne, vincendo così la vanità e l'avarizia, egualmente forti, come sappiamo, nelle giudee» 13. Ma il pennino dei due toscani sa intingersi anche nell'ironia, dato che Aronne «poté con quello stratagemma, trastullare gli ebrei perché aspettassero con maggiore pazienza il ritorno di Mosè con la Legge» 14. Ironica anche la rievocazione di Barabba (personaggio che spesso ricorre nella produzione letteraria papiniana), "vittima politica" nel giudizio di Pilato, nel quale gli ebrei dell'epoca («gente di passione e, in fondo in fondo, di rispetto») preferirono la libertà alla morte.


  58

   Se oggi si ripresentasse l'identico dilemma - scrive Papini -, i Giudei, d'accordo con Pilato, farebbero rinchiudere Gesù in una casa di salute e il martire Barabba diventerebbe in poco tempo commendatore, poi deputato al parlamento, e anche, chissà, governatore di Gerusalemme 15.
   Alla voce «Antisemitismo» l'ironia scomparve e lo spirito caustico si riaccese, sorretto da argomentazioni che travolgono quel "cristianesimo compromissorio" di cui Papini e Giuliotti (emuli di De Maistre, Hello e Bloy) si professavano severi censori. Agli ebrei andrebbe la responsabilità di aver generato e rafforzato il sentimento antisemita e se i cristiani fossero rimasti tali e non avessero adottato i valori giudaici, e cioè «l'amore della potenza, della moneta, della quantità», i primi non dominerebbero oggi il mondo. Il livore dei due convertiti culmina nell'apostrofare gli israeliti "razza divina e immonda": una definizione che nella sua estrema durezza contiene un lampo di lucidità, la consapevolezza cioè della suprema elezione di Israele e perciò dell'esistenza stessa del suo mistero. Se l'intento dei due amici scrittori è quello di imbarazzare, di colpire allo stomaco il lettore con piglio "salvatico", essi non dimenticano mai che quello ebraico è «il popolo sacro, scelto da Dio per ripetere le Sue parole e per ospitare il suo Figliolo» 16. Di questo essi sono certi, come non nutrono dubbi sul fatto che la conversione a Cristo degli ebrei li renderà "i più grandi cristiani del mondo" 17. È questa una convinzione tutta papiniana che quasi un quarto di secolo dopo ritornerà nelle Lettere di papa Celestino VI.
   Nel libro Gog (1931) - efficace esempio di "saggio inventivo", un genere letterario tutto papiniano - lo scrittore fiorentino si confronta con la modernità, condannandone le spinte nichiliste, il predominio della ragione, la disperazione diffusa.
   In questo scenario si colloca la figura del dottor Benrubi, segretario ebreo di Gog, diminutivo di Mr. Goggins, uomo d'affari spregiudicato, «iniziato alle più raffinate droghe di una cultura in putrefazione» 18, desideroso di conoscere e di rivelare un mondo in decadenza.
   Secondo Papini Gog ha scelto bene il suo collaboratore. Benrubi è per lui lo stereotipo dell'ebreo: colto e senza radici. Egli è nato in Polonia, ha studiato a Riga in Lettonia, si è addottorato in filosofia a


  59

Jena in Germania, in filologia moderna a Parigi, ha insegnato a Barcellona e a Zurigo 19.
   Nell'immaginaria intervista gli vengono rivolte una serie di domande.

   Come mai gli ebrei sono così intelligenti e paurosi?
   Paurosi? - risponde Benrubi -. Intendete parlare, probabilmente, del coraggio fisico, materiale, bestiale. Quanto a quello spirituale gli ebrei non sono soltanto coraggiosi ma temerari. [...] Per non essere sterminati - prosegue - dovettero anche loro inventar difese. N'ebbero due: il denaro e l'intelligenza. (...) Non potendo adoprare il ferro gli ebrei si protessero, alla peggio, coll'oro - metallo più estetico e più nobile
20.

   Il ragionare di Benrubi procede serrato.

   L'ebreo, divenuto capitalista per legittima difesa, s'è trovato a essere, per colpa della decadenza morale e mistica dell'Europa, uno dei padroni della terra, contro il suo stesso genio e la sua volontà 21.

   Da qui l'azione dell'intelligenza ebraica pronta a compromettere le «colonne su cui si reggeva il pensiero dell'occidente» 22. Heine, Lombroso, Nordau, Freud e Einstein - sostiene il personaggio - non hanno forse messo in discussione e beffato il romanticismo, l'uomo di genio, il poeta, la moralità e la solidità dell'universo? Benrubi è categorico:

   Questa propinazione secolare di veleni dissolvitori è la grande vendetta ebraica contro il mondo greco, latino e cristiano. I greci ci hanno scherniti, i romani ci hanno decimati e dispersi, i cristiani ci hanno torturati e depredati [...] 23.

   Nel 1932 uscì per Vallecchi La scala di Giacobbe, miscellanea di scritti e discorsi. Tra essi spiccò Cristo romano, ricavato da una conferenza che Papini tenne nel dicembre del 1923 (lo stesso anno in cui pubblicò il Dizionario) presso lo Studio cattolico di Firenze e all'Opera Card. Ferrari di Milano. Il tema principale dell'intervento fu il ruolo storico di Roma nell'affermazione terrena del cristianesimo. Se con Giuliotti aveva lasciato libero sfogo a sentimenti "giudeofobi" - espressione spesso di una retorica a effetto tutta letteraria - in queste pagine Papini fu più riflessivo e mite, privo del desiderio di stupire i lettori con "salvatiche" provocazioni. Il suo pare finalmente sincero magistero.


  60

   Sono due le città sante - afferma - : nessun'altra città, sia pure più popolosa e ricca, esiste sulla terra che possa eguagliarle e tanto meno superarle. Non solo rappresentano le due colonne maestre della civiltà universale, ma sono i due termini fissi della religione universale cattolica, la quale mosse dalla prima e s'è fermata, per i secoli, nella seconda. Gerusalemme era la città d'Iddio; Roma la città dell'uomo [...] Gerusalemme fu scelta per l'Apparizione e la Resurrezione d'Iddio e nessuno può toglierle il soprannaturale primato[...]» 24.

   E più avanti:

   La Chiesa, ch'è umana e divina insieme, come il suo Creatore, ha conservato tutto il divino della testimonianza ispirata dalla Giudea e ha preso quel che di più altamente umano splendeva nella civiltà di Roma. Questa indissolubile unione non poteva avvenire senza la volontà d'Iddio [...]. Non v'è dunque, per noi cattolici, un solo popolo eletto - ve ne son due: il popolo Ebreo e il popolo Romano, tutti e due divinamente destinati a costituire col loro immedesimamento il corpo visibile della Chiesa Universale e Romana 25.

   Papini riconobbe nella presenza di Israele, «popolo della Legge e della Promessa», l'anticipazione del supremo disegno di Redenzione attuato dalla volontà divina. Le Scritture lo preannunciarono attraverso i Profeti e le Figure. Papini si muove sulla scorta del testo biblico: Abele, Isacco, Melchisedec, Giuseppe, Mosè, David, Giona e Geremia sono tutti figli di questa "schiatta", amata da Dio "come cosa sua", "percossa e infedele", dalla quale nacque il Figlio, "ultima e massima prova della sua misteriosa parzialità" 26.
   Lo scrittore infatti, anche dopo la conversione, non smise mai di ricercare Cristo, di abbeverarsi alla fonte della Grazia, abbandonandosi - lui il titanico Gian Falco - nelle braccia del Dio fattosi uomo, desideroso di esserne il più appassionato testimone.
   Ne I testimoni della Passione (1937) Papini si pose di fronte al tragico mistero dell'Evento salvifico, mescolandosi tra la folla di coloro che vissero in prima persona, protagonisti e comparse, il dramma del Calvario. Tra essi ben figurano Giuda e Barabba, attraverso i quali egli scorse il lato oscuro dell'umanità; spicca Caifa, consapevole di aver condannato a morte Dio e di essere così divenuto strumento della Redenzione; non manca Pilato, divenuto pazzo per


  61

aver ordinato la crocifissione del misterioso Nazareno autoproclamatosi re dei giudei.
   Papini però non si soffermò sull'"ineffabile potenza" di cui si sentì investito Caifa al Sinedrio, bensì sull'ostinata disperazione di Sabbatai ben Shalom, "Gran rabbino dell'Esilio", durante l'incontro notturno con papa Celestino VI, il pontefice immaginario caro allo scrittore fiorentino. Quella del rabbino, personaggio uscito dalla fantasia letteraria di Papini che qui non si professa né studioso di teologia né storico, è la figura paradigmatica della Diaspora secolare e occupa l'ultima delle "leggende evangeliche" che compongono il volume. Il brano è del 1935, e precede perciò di un decennio la composizione delle celebri Lettere che Celestino scriverà dopo la seconda guerra mondiale. In quegli anni tragici, la distruzione e il dolore del mondo, l'offesa della fede e le sofferenze dei credenti, produrranno in Papini quella progressiva presa di coscienza del mistero di Israele che qui è ancora abbozzata, sebbene contrassegnata da sprazzi di grande potenza evocatrice.
   Sabbatai, introdotto al cospetto del successore di Pietro, annunzia solenne che i figli di Abramo sono pronti «a confessare che Cristo Gesù è il vero Messia, il discendente di David, il figlio unigenito di Dio» 27. Essi pertanto aspettano di essere ammessi alla sua Chiesa, stanchi dell'odio e della persecuzione. Una grande cerimonia a San Pietro li vedrà accorrere a Roma, provenienti dai ghetti e dalle sinagoghe di tutto il mondo. Vestiranno la bianca veste dei catecumeni.
   Papa Celestino manifesta la sua gioia per la notizia, perché gli ebrei furono «i primogeniti della Promessa, e c'è sempre posto, alla mensa del Padre, per i figlioli errabondi che hanno riacquistato il lume dello spirito» 28. Ma il Pontefice, in virtù dell'ufficio assegnatogli dalla Provvidenza, vuole scrutare nell'animo di Sabbatai e chiede se la sua gente desideri ottenere qualcosa in cambio dall'abiura collettiva.
   Il rabbino ammette: «Noi chiediamo una cosa sola: che sia tolta dall'anno ecclesiastico la Settimana della Passione» 29. Celestino, pur ammettendo che i padri di Sabbatai "non seppero quel che facevano", non acconsente, poiché non si può concepire la Redenzione senza il Gethsemani e il Golgotha. Sabbatai allora propone di


  62

riscattare con l'oro la colpa del deicidio, ma Celestino risponde che con l'amore non con la ricchezza si riconquista Gesù 30.
   I due parlano linguaggi diversi - la conversione è ancora prematura? - e il primo lamenta che l'elezione del Padre è stata motivo di sofferenza, e l'uccisione del Figlio ha scatenato ogni sorta di persecuzione. Ebbene, il popolo ebraico sarebbe disposto a perdonare la divinità come supremo gesto d'amore.
   Celestino a quel punto piange addolorato in silenzio, e mentre Sabbatai torna sui suoi passi inizia a mormorare la nota preghiera del Venerdì Santo: «Oremus et pro perfìdis Judaeis, ut Deus et Dominus auferat velamen de cordibus eorum» 31.
   Sarà Giovanni XXIII - sincero estimatore di Celestino VI - a cancellare molti anni dopo questa invocazione liturgica. (continua)

   Note


  63

   Note


  64

   Note


  65

   Note


  66

Alberto Castaldini, nato a Verona nel 1970, è laureato in Giurisprudenza all'Università Cattolica di Milano, città nella quale vive e lavora. Studioso di antropologia culturale e storia della cultura ha pubblicato diverse monografie tra cui: Il Ghetto di Verona nel Seicento (Verona, Archivio Storico Diocesano, 1997); Der Kelch des heiligen Johannes. Die Verehrung des heiligen Evangelisten Johannes in den zimbrisch-deutschen Sprachinseln (Wien, Praesens, 1998), Tradizioni ebraiche in Italia (Milano, Editrice Àncora, 1999), L'ipotesi mimetica. Contributo a una antropologia dell'ebraismo (Firenze, Olschki, 200 I). Giornalista professionista scrive per "Il Giorno", "Il Resto del Carlino" e "La Nazione" e collabora a riviste e atti accademici. È socio ordinario dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo.


  82

Parte II

   Nel 1938, un anno dopo l'uscita dei Testimoni della Passione, il Governo italiano varò le leggi antiebraiche, allineandosi con la politica germanica. Giovanni Papini che aveva duramente condannato il razzismo nazista ne La pietra infernale, assistette silenzioso all'emanazione dei provvedimenti antisemiti, non manifestando pubblicamente la sua protesta 32 nonostante quattro anni prima avesse attaccato su «Il Frontespizio» il razzismo nazionalsocialista.
   La mancata denuncia delle leggi razziali, che - va ricordato - lo stesso re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia non esitò a promulgare come capo dello Stato, non sta però a significare automaticamente una loro approvazione da parte di Papini, diversamente da quanto fecero altri esponenti della cultura e del mondo universitario italiano 33. Anzi, dagli strumenti propagandistici della persecuzione antisemita Papini prese nettamente le distanze. Lo conferma un documento finora inedito del dicembre del 1944, scritto di proprio pugno dallo scrittore quale memoriale destinato a chiarire la propria posizione politica, e cortesemente fornitoci dalla nipote Anna Casini Paszkowski. Esso così recita:

   Giovanni Papini, anche nella sua qualità di cattolico, non approvava né poteva approvare molti atteggiamenti e metodi del fascismo e rifiutò ad esempio di far parte del Comitato per lo studio del problema ebraico che avrebbe dovuto essere strumento di antisemitismo in Firenze 34.

   Pochi anni prima il giornalista razzista Telesio lnterlandi, in una lettera inviata a Papini da Roma il 26 novembre 1938, ora nell'archivio dello scrittore fiorentino presso la Fondazione "Primo Conti" di Fiesole, gli chiedeva con tono pressante un giudizio sui suoi scritti intorno all'arte e la razza, in cui lamentava l'influenza ebraica, e straniera in genere, sull'arte italiana. Quest'ultima, secondo il giornalista, avrebbe vissuto una condizione di passività. Interlandi lamentava che Papini sembrasse non aver nulla da dire a riguardo, anzi pareva negare l'esistenza stessa del problema 35.


  83

   Circa la Shoah lo scrittore ebbe consapevolezza di quale immane tragedia fosse avvenuta. Nelle postume pagine sparse del suo monumentale Giudizio universale, nella schiera degli omicidi, Papini descrive la tragica figura del rabbino Yom Tob, vittima di un pogrom medievale in cui tutta la sua comunità fu massacrata. Durante lo shabbat la popolazione cristiana si scaglia contro gli ebrei, costretti a rifugiarsi nel castello regio. Gli israeliti terrorizzati vengono posti di fronte a un'alternativa: il battesimo o la morte. Scelgono il sacrificio e molti di loro si suicideranno per non cadere in mano alla folla sanguinaria. Yom Tob, prima di cadere sotto il ferro dei suoi persecutori, si macchierà del sangue di un fratello che lo aveva implorato di ucciderlo. Papini, per bocca del rabbino, abbozza una lettura storicamente lucida e obiettiva dell'antisemitismo.
   Ora che infiniti giorni hanno divorati tutti i viventi e la loro stessa abitazione, mi pare d'intendere con maggiore giustizia il delitto altrui e la colpa nostra. Nell'accozzaglia dei massacratori vi erano baroni indebitati che odiavano in noi i creditori molesti; borghesi che detestavano in noi i più fortunati rivali nella caccia al guadagno; plebei fecciosi pronti sempre alla rapina e alla strage quando vi era speranza d'impunità. Tutti, poi, erano insobilliti dai monaci maniaci che vedevano in noi gli uccisori di Cristo, i deicidi. Ma la fede era maschera e scena: i nostri assassini erano mossi soprattutto dall'invidia, dalla paura e dall'avarizia. Tant'è che quella torma omicida, appena fu sgozzato l'ultimo giudeo, corse alla cattedrale e bruciò le carte dove eran registrati i debiti dei cristiani verso i miei fratelli. In nome di quel Gesù che aveva condannato le ricchezze i suoi fedeli rubarono e usurparono in quel modo selvaggio le nostre ricchezze 36.

2. Nel Dopoguerra Papini seppe intimamente rivedere in una lunga confessione agli uomini del suo tempo, i giudizi caustici che aveva riservato in altre pagine al popolo ebraico. In un volume edito da Vallecchi nel 1946 ricompare Celestino VI, papa immaginario, che rivolgendosi ai fratelli ebrei riconosce in loro la conferma di una dolorosa e allo stesso tempo suprema vocazione divina


  84

   Miei Fratelli, miei Figlioli, da gran tempo ho desiderio forte di rivolgermi a voi. È giunta, alla fine dei miei giorni, l'ora di parlarvi, di parlarvi come nessun Papa vi ha mai parlato. [...] Sento in me la certezza che tra la Chiesa di Cristo e il popolo scelto da Cristo v'è un misterioso legame che nessuna spada potrà recidere. Dio ci volle stringere insieme con quei luminosi lacci che si chiamano Maria e Pietro, Paolo e Giovanni. Voi non potete rinnegarli, perché furon del vostro sangue; noi che li amiamo, non possiamo dimenticare che furono Ebrei 37.

   Celestino cerca di trovare una ragione all'odio che ha seminato la morte tra gli innocenti:

   Io aborro e condanno tutte le persecuzioni e in particolar modo la persecuzione del popolo scelto da Cristo. Ma non pensate - scrisse - ch'esse potrebbero essere un altro segno della vostra misteriosa conformità a Cristo? 38.

   Papini, nella furia distruttrice accanitasi contro gli ebrei si sforza di ricercare un segno che non fosse una giustificazione, nemmeno teologica, ma la conferma che Dio non era negli anni dello sterminio né assente né impotente verso i suoi figli. La configurazione di un intero popolo in Gesù, individuata lucidamente dallo scrittore 39. appare un'intuizione di immensa portata e allo stesso tempo un altissimo elogio, anche se non gradito dagli ebrei. Nella conformazione delle vittime a Cristo, Papini riconosce implicitamente le colpe dell'umanità di cui faceva parte. Papini comprende che il dovere del cristiano è di non dimenticare lo speciale legame con la radice santa della propria fede. Memorabili a proposito le parole di Jules Isaac:

   Il bagliore del forno crematorio di Auschwitz è il faro che rischiara, che orienta il mio pensiero. O fratelli miei ebrei, e voi pure, miei fratelli cristiani, non pensate che quel bagliore si confonde con altra luce, quella di Cristo? 40,

   Jacques Maritain, in più occasioni, ribadì la misteriosa e tragica similitudine tra la Passione di Cristo e lo storico calvario degli ebrei. Parlando alla radio americana nel gennaio del 1944 il filosofo francese disse:

   Gesù Cristo soffre nella passione d'Israele. Perseguitare la casa d'Israele, è anche perseguitare il Cristo, non nel suo corpo mistico come quando si


  85

   perseguita la Chiesa, ma nel suo succo carnale e nel suo popolo smemorato che non cessa di amare e di chiamare. Nella passione d'Israele il Cristo soffre ed agisce come pastore di Sion e messia d'Israele, per modellare a poco a poco il suo popolo su se stesso 41.

   Papini sgomento di fronte a quei cinque anni di guerra, che costarono la vita a milioni di esseri umani in ragione della loro divisa e della loro stirpe, capì che la manifestazione più feroce del male non doveva annichilire le coscienze, bensì risvegliarle. Solo la presa di coscienza del dramma avrebbe reso possibile col tempo il ravvedimento e la riconciliazione, e il mistero di Israele si sarebbe delineato ai suoi occhi finalmente sgombero dai peggiori pregiudizi che avevano alimentato l'indifferenza di molti cristiani verso sorte dei fratelli ebrei. Significativo questo passaggio:

   Non vi siete accorti - dice Celestino agli ebrei - ch'Egli non permise a mani giudee di macchiarsi del suo sangue? Volle essere infisso sul legno da mani straniere, poiché almeno la vostra mano, se non la testa, restasse monda 42.

   Per il cristiano sulla vicenda ebraica non pesava il castigo del Golgotha, ma la condivisione di un progetto salvifico che la Redenzione opera costantemente nella storia, dove l'uomo è libero d'esser malvagio perché il male non può essere mai banale. Agli ebrei lo scrittore fiorentino infatti confessa: «La salvezza degli uomini è anche nelle vostre mani» 43. E inoltre: «Se la Chiesa cristiana è il corpo mistico di Cristo, il vostro popolo fu, prima della venuta, il corpo profetico di Cristo» 44. Quasi un decennio prima Maritain analogamente scriveva:

   Il corpo mistico d'Israele è quello di un popolo particolare, la sua base è temporale e comporta una comunità di carne e di sangue; per difendersi dall'universo, deve come disgiungersi da se stesso, spezzarsi e disperdersi. La diaspora - già cominciata prima dell'era cristiana - è la corrispondenza terrestre e dolorosa della cattolicità della Chiesa 45.

   Nella visione di Papini non sta però la volontà di assimilare - confondendolo - il dolore del popolo di Israele a quello della Chiesa, ma il desiderio di condividerlo almeno spiritualmente, per meglio comprenderlo in profondità e arriva a parlare di "fraternità nelle lagrime" tra ebrei e cristiani 46.


  86

Per Papini la politica hitleriana promovendo una nuova forma di paganesimo si era proposta di distruggere la fede degli uomini nell'unico Padre. Molti dei carnefici erano cattolici: ciò non poteva che ferire ancora di più l'animo di un credente.

   I vostri persecutori - scrive Papini rivolgendosi agli ebrei - non sono i cristiani, ma i nemici stessi del cristianesimo, che non vi possono perdonare d'aver veduto nascere in mezzo a voi la no stra fede e la nostra Chiesa. I vostri nemici, oggi, sono i nostri amici 47.

   Ci preme far notare che Papini sin dagli anni Trenta aveva preso le distanze dalla politica razzista germanica. Lo scritto in cui manifestò più netta la sua condanna apparve nel 1934 sulla rivista «Il Frontespizio» (fasc.12) e già nel titolo faceva presagire la veemenza delle argomentazioni: Razzia dei razzisti 48.
   «I razzisti all'ingrosso van cicalando di razze come se l'etnologia fosse una scienza precisa e certa di quanto la geometria», scrive Papini 49. E dopo aver sottolineato quanto fosse relativa la classificazione razziale degli antropologi, anche quella propugnata da Alfred Rosenberg, "ninfo razzista del Terzo Reich", "archimandrita del razzismo", lo scrittore si chiede «dove mai riposa e scorre il puro sangue ariano in nome del quale codesti frenetici vociatori perseguono gli Ebrei e decretano l'incurabile "caos etnico" dei popoli neolatini?» 50. Papini poi afferma:

   Il razzismo, considerato metafisicamente, è la ultima forma, per ora, che ha preso l'ateismo germanico: una guerra contro Dio, contro il Dio personale e trascendente della perennis philosophia. [...] Non più trascendenza, non più Dio, non più capo visibile e soprattutto non più Vangelo: Cristo non era che un piccolo giudeo anarchico, che ha corrotto il sangue tedesco 51.

   Papini conclude così il suo 'j'accuse':

   Al sangue di Cristo, che fu sparso per tutti gli uomini d'ogni razza e condizione, i giovani tedeschi preferiscono il "sangue nordico" che son pronti a spargere per compiere la strage e ottenere la soggezione degli altri popoli. 52.

   Quando la tragedia si era purtroppo già consumata, quest'uomo che desiderò conservare fino alla morte un"'anima intera", che aveva incontrato Cristo nella pienezza della vita dopo esserne stato a lungo lontano, capì che non solo il pentimento e l'umana compassione, ma


  87

anche una coraggiosa comprensione teologica dell'agire del male nella storia umana sarebbero stati necessari per gettare le fondamenta di una futura riconciliazione tra i persecutori e i perseguitati.
   In Papini rimase inoltre salda la convinzione che solo la conversione finale del popolo ebraico, annunciata da san Paolo (Rom 11, 12;15}, avrebbe permesso la completa riconciliazione tra la Sinagoga e la Chiesa. Da qui l'impossibilità - sottolineata anche da Maritain - di trovare una soluzione al "problema ebraico", poiché «voler trovare una soluzione al problema d'Israele è come cercare di arrestare il movimento del mondo». 53.
   Lo scrittore fiorentino era certo però che mai sarebbe venuta meno la predilezione di Gesù per il suo popolo, carne della sua carne (Romani, 9,5), perché radicato attraverso la sua ascendenza terrena nel solido ceppo di Abramo.
   Da qui, nelle vesti profetiche di Celestino VI, un suo ultimo accorato appello: «Se Cristo, per un mistero inimmaginabile della sua povertà, avesse bisogno di qualcuno io credo avrebbe fame di voi, delle vostre anime, del vostro amore» 54.

(La prima parte è alle pp.54-66 di "Cartevive", n.33, marzo 2003)

   Note


  88

   Note


  89

   Note


  90

   Note


Alberto Castaldini, nato a Verona nel 1970, è laureato in Giurisprudenza all'Università Cattolica di Milano, città nella quale vive e lavora. Studioso di antropologia culturale e storia della cultura ha pubblicato diverse monografie tra cui: Il Ghetto di Verona nel Seicento (Verona, Archivio Storico Diocesano, 1997); Der Kelch des heiligen Johannes. Die Verehrung des heiligen Evangelisten Johannes in den zimbrisch-deutschen Sprachinseln (Wien, Praesens, 1998), Tradizioni ebraiche in Italia (Milano, Editrice Àncora, 1999), L'ipotesi mimetica. Contributo a una antropologia dell'ebraismo (Firenze, Olschki, 200 I). Giornalista professionista scrive per "Il Giorno", "Il Resto del Carlino" e "La Nazione" e collabora a riviste e atti accademici. È socio ordinario dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo.


◄ Indice 2003
◄ Alberto Castaldini
◄ Cronologia